martes, 28 de julio de 2009

Pasolini : Lo spasmo erotico di un Angelo diabolico


"E’ dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito appunto di una "Semiologia generale"). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci"

Pier Paolo Pasolini, "Empirismo eretico", Garzanti, Milano

La poetica di Pasolini si perde nello spirito del deforme, del mostro, dell’altro da sé. E’ il suo viso a testimoniarlo; agro, amaro quanto dolce e femmineo. Un viso dai tratti somatici animali, attraversati da rughe, occhiaie ed occhiali neri che premono sui suoi occhi come il mondo politico ed intellettuale che lo ha lentamente portato alla morte. E’ questo lo iato che esprime la poetica pasoliniana della differenza, continua, radicale, immediata, sfrontata, colpevole e colpita e, soprattutto, senza via d’uscita. Scelte di vita, scelte di morte. Paesaggi urbani. Paesaggi carnali. Paesaggi sventrati. Questo racconta la geografia del suo corpo dilaniato la notte tra l’uno e il due novembre. Una morte che sembra liberare le sue angosce e il suo nichilismo, trasformandolo in paesaggio urbano. Lo sprawl delle sue membra abbatte il confine tra la forma-città e la forma-metropoli che lui ha indagato come antropologo urbano attraverso la sua produzione cinematografica con metodologie sporche, marce, queer. Punxolini quindi come esperienza punk moltiplicata nella descrizione di immaginari a venire e nel no future. Queer come linguaggio della sovversione attraverso il ribaltamento radicale dei codici linguistici del potere. "Pasolini", come ricerca ed espressione del desiderio oltre i confini del pensiero filosofico politico della dialettica.

Angelus diabolicus della narrazione cinematografica, Pasolini sembra essere impossessato dalle visioni urbane di Walter Benjamin nella sua lettura antropologica della città. Se il Walter immaginifico costruiva città di luce su architetture di giochi linguistici wittegensteiniani, impossessandosi del centro di Parigi attraverso slittamenti centripeti da un boulevard a un altro, Pasolini opera in senso opposto. Il suo è un movimento centrifugo, uno spasmo erotico che lo porta oltre confine, lì dove metropoli in divenire e umanità perduta ballano una danza macabra. La sua è estetica del rifiuto dove le vacche grasse sono impazzite e il marcio urbano produce conati. Pasolini si rigenera in questo vomito orgasmatico e, autoconsapevole della bellezza della mostruosità, prende la sua deriva conoscitiva.

Il suo caronte è Ninetto Davoli, che gli dona la romanità, introducendolo nelle definizioni sociali provenienti dai giochi linguistici come architetture basiche della geografia perduta di Roma. E’ lo splendore abortito della borgata ad essere l’estensione spontanea delle sua faccia; questa continua vertigine ossimorica di durezza e dolcezza senza soluzione di continuità. Il cordone ombelicale è il cappio con il quale si impiccherà. La sua è una messa nera. La celebrazione del demonio. Il suo bacio anale, lì dove bene e male perdono senso come categorie morali. Il lumpenproletariat romano diventa il soggetto narrante. Attraverso la sua violenza, Pasolini si libera liberando, librandosi. Il doppio vincolo della corruzione/salvazione dei suoi rapporti di strada stravolge il concetto di morbosità rendendo il suo pericolo una linea libertaria, tanto quanto lo sperma lasciato a tracciare le borgate come segnale territoriale.

Non c’è nulla di cattolico in tutto questo, quanto un respiro rituale pagano metropolitano. Magia sessuale. Zone occulte. Transluoghi. Immondizia. Pasolini non vuole redimere, quanto cantare l’estetica del potere attraverso il suo corpo, senza remore e proroghe, in prima linea. Una linea oscura, fatta di cruising areas dove il denaro pagato non è solo un modo di acquisire sesso ma di godere del piacere della corruzione. Pasolini è nudo nel suo desiderio. E le sue vibrazioni carnali narrano povertà e abuso, godendo del circo di stracci di cui lui stesso è bestia feroce. La deflagrazione è il punto di passaggio dove l’amore non può che essere miserabile. Ed è proprio nel passaggio forzato della borgata, come urto anale della carne attraverso lo stupro, a liberare. Nella logica pasoliniana, se la proprietà privata è il male, farsi possedere violentemente, vivere l’abbandono dell’atto, lasciare il senso della proprietà del corpo attraverso lo stupro, è il momento massimo di liberazione, di autoconsapevolezza. Pasolini è posseduto dal male, dalla mostruosità, dagli accattoni, dalle fisiognomiche distorte di Franco Citti, dal Borghetto Prenestino, dalla Magliana, da Roma puttana, madre e lupa. Pasolini non vuole fare retorica di classe, quanto erotica feticizzante. Ciò lo rende orizzontale rispetto ai suoi interlocutori. Il solo suo modo di abbattere il potere è incorporarlo.

Il suo atto più poetico e libertario risiede, appunto, nel suo film più dolce: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Dolce nell’omaggio ad uno dei fuorilegge più libertari della letteratura e filosofia europea, Pasolini dedica il suo ultimo urlo strozzato a De Sade. Su Salò si è detto tutto, in un bisogno spastico di riduzionismo e di neutralizzazione da parte della comunità intellettuale e politica, del pericolo che un film del genere rappresenta. Espressione dolce proprio nel suo nichilismo - quando ormai Pasolini era stato messo ai margini, alle corde nel suo essere radicalmente freddo, distaccato dal panorama politico sociale italiano - Salò è un atto d’amore che lui concede al desiderio. Al proprio desiderio. E’ troppo facile pensare il film come teatralizzazione del potere attraverso interpretazione dei 4 "signori". E’ troppo facile porre Pasolini al di fuori del film, usando l’opera come analisi critica del momento storico in corso. E’ ancora troppo cattolico distaccarsi dal film, distaccarsi dall’eccitazione, dal coinvolgimento genitale che il film produce, dalle erezioni incontrollate della sinistra che ben pensa e nega.

Ma Pasolini è lì. Pasolini è un pornografo. Egli usa il linguaggio dei corpi in modo sfacciato ed evidente per accedere alle sfere del profondo, dove le forme di potere attecchiscono nell’invisibilità del loro quotidiano. Egli agisce sulle meccaniche della morale mettendosi in gioco per primo. Pasolini è lì, nei chiodi vomitati dai ragazzi sottomessi come cani. Pasolini è lì, nella merda mangiata nel pranzo nunziale. Pasolini è lì, nel travestitismo dei signori del potere. Pasolini è lì, nella delazione. Pasolini è lì, nel ripetuto piacere dell’omicidio simulato. Pasolini è li, tra fascismo e anarchia. Pasolini è lì, cantore della sua fine. Il cantore dell’unica vera sconcezza necrofila, l’accanimento giudiziario postmortem sul cadavere del desiderio.

Testo di Francesco Macarone Palmieri

domingo, 12 de julio de 2009

chant d' amour

Jean Genet
1950











Nació en París el 19 de diciembre de 1910. De padre desconocido, su madre (una joven prostituta) lo entregó a la asistencia pública a la edad de un año, permaneciendo allá hasta los ocho. De los ocho a los diez vivió con un carpintero de Morvan y su familia, a los que hizo víctimas de sus primeros robos, pese a que (según la biografía de Edmund White) siempre se habían preocupado por él y le tenían mucho cariño. Durante su periodo escolar fue un alumno aventajado, obteniendo las más altas calificaciones. Sin embargo, esta época de su vida está plagada de intentos de fuga y hurtos menores. A la edad de diez años, Genet se convirtió en un auténtico ladrón, pasó su adolescencia en prisiones juveniles (como las de Mettray, Fresnes, Tourelles, y Santé) y más tarde acabó prostituyéndose. Edmund White sugiere que los sórdidos y escabrosos detalles acerca de su infancia y adolescencia, pudieran haber sido exagerados por el mismo Genet para encajar en su ideal de "marginado". A partir de entonces comenzó a escribir. Sobre su vida de presidiario escribió en 1946 "Miracle de la Rose"/"El milagro de la rosa" (Paris: Gallimard, 1951), vida de presidiario que finalizó a los 18 años, cuando se alistó en el ejército.

Su vida militar acabó de forma súbita tras ser declarado culpable de realizar actos impúdicos (fue atrapado en actitud homosexual) con un compañero. A partir de ese momento prosiguen sus andanzas como vagabundo, ladrón y chapero por toda Europa. Sobre estas andanzas personales escribe en "Journal du voleur"/"Diario del ladrón" (Paris: Gallimard, 1949). En 1937 regresa a París, dónde entra y sale de la cárcel en numerosas ocasiones acusado de robo, mendicidad, falsificación de documentos, y conducta impúdica y obscena. Una vez más en prisión escribe el poema "Le condamné à mort" (1942) cuya edición costea de su propio bolsillo, y en 1944 la novela "Notre Dame des Fleurs"/"Santa María de las Flores" (Lyon: Barbezat-L'Arbalète, 1948). Tras diez condenas consecutivas, sobre Genet pendía la amenaza de la cadena perpetua. Fue gracias a Jean-Paul Sartre, Jean Cocteau (quien utilizó su influencia para la publicación de "Notre Dame des Fleurs"), Pablo Picasso y otros personajes de la vida artística e intelectual francesa que pidieron el indulto personalmente al presidente de la república y su condena fue finalmente revocada en 1948. Genet nunca volvería a ser encarcelado.

En 1949 ya había publicado cinco novelas, tres obras teatrales y varios poemas. En ellas retrataba de forma totalmente explícita y provocadora tanto el crimen como la homosexualidad, motivo por el que su obra fue, no solo censurada, sino prohibida en muchos países. Por otro lado, debido a la devastadora depresión que para Genet supuso su propio análisis en el largo ensayo de Sartre "Saint Genet comédien et martyr" (1952) dejó de escribir durante años. En 1961 había escrito nuevas piezas teatrales así como el ensayo "Ce qui est resté d'un rembrandt déchiré en petits carrés", analizado por el filósofo deconstructivista Jacques Derrida en su obra "Glas".

Su vida amorosa durante este intervalo de tiempo estuvo estrechamente ligada a Abdallah, un funambulista que acabó con su propia vida en 1964. Tras este suceso, Genet también intentó suicidarse.

A finales de los años 60 se acentuó su compromiso político, especialmente después de los eventos de Mayo del 68 (incluso homenajeó a Daniel Cohn-Bendit, líder de los estudiantes revolucionarios). Declarando que si bien se trataba de una revolución imposible, lo importante era que "la ideología del Mayo Francés es una mezcla de exaltación de la juventud y de rechazo a la autoridad y a la jerarquía". Participó en manifestaciones para llamar la atención sobre las penosas condiciones de vida de los inmigrantes en Francia. Sus convicciones políticas le llevaron también a apoyar a los Panteras Negras, que le invitaron a los EE. UU. donde vivió durante tres meses en 1970 dando charlas, asistiendo al juicio de Huey Newton (su líder), y escribiendo artículos para sus periódicos. También en 1970 tuvo acceso a los campos de refugiados en los Territorios Palestinos, entrevistándose secretamente con Yasir Arafat. Profundamente influenciado por estas experiencias escribió su última, póstuma y larga novela "Un Captif Amoureux"/"Un cautivo enamorado" (Gallimard;1986 que tradujeron al castellano, para Editorial Debate, María Teresa Gallego Urrutia y María Isabel Reverte Cejudo en 1988) En ella Genet recoge textos elaborados durante su estancia en Jordania y Líbano al lado de los fedayín. También apoyó el grupo de información para presidiarios con Angela Davis, George Jackson, Michel Foucault y Daniel Defert. Trabajo con Foucault y con Sartre en sus protestas contra la brutalidad policial contra los argelinos en París, brutalidad permanente desde la guerra de la independencia de Argelia, que provocaba la aparición de cuerpos apaleados y torturados flotando en el Sena.

En 1982 Jean Genet, que se encontraba en Beirut, fue uno de los primeros europeos en entrar en el campo de refugiados palestinos de Sabra y Chatila donde tan sólo horas antes los falangistas (kataeb) libaneses acababan de asesinar a cientos de sus habitantes. El resultado de esta visita es su texto "Quatre heures à Chatila"/"4 horas en Chatila" publicado censurado en la Revue d´Etudes palestiniennes en su número de enero de 1983; hay disponible una traducción en castellano de la versión oficial en CSCA. El 19 de diciembre de 1983, en una de sus escasas apariciones públicas, leyó fragmentos de su obra en la innauguración de una exhibición sobre la masacre de Sabra y Chatila organizada por la "International Progress Organization" en Viena, Austria. Había sido invitado por el filósofo Hans Köchler.

En 1984 la Academia Francesa le concedió el Premio Nacional de Literatura.

Poco tiempo después Genet desarrolló un cáncer de garganta. Fue hallado muerto el 15 de abril de 1986, muerte probablemente causada por un traumatismo craneal tras una caída fatal. Casi olvidado, fue enterrado en el cementerio español de Larache, Marruecos.

A VOLTE...sola A VECES...a solas

Por Emanuela Fara

Spesso mi ritrovo a pensare alle parole più ricercate solo per scrivere semplicemente

il suono di un

silenzioso gesto, voluto e sentito, a volte

mentre cammino, altre volte

mentre mi perdo in una città che credo di conoscere, sfiorandoti

leggermente, mi accorgo del peso che un'anima può avere,

cercando di afferrarla

per non perderla tra i sogni, scopro che il passare del tempo non ha importanza, perché quando

vedo due occhi ed un sorriso urlanti di piacere

senza confondere desiderio e fantasia sento che

dolcemente, senza paura

...Ti vOgLio...


A menudo pienso en las palabras mas rebuscadas solo para escribir simplemente

El sonido de un

Silencioso gesto, querido y sentido, a veces

Mientras me pierdo en una ciudad que creo conocer, rozandote

Ligeramente, me doy cuenta del peso que un alma puede tener,

Intentando agarrarla

para no perderla entre los sueños, descubro que el paso del tiempo no tiene importancia, porque cuando

Veo dos ojos y una sonrisa que gritan placer

Sin confudir el anhelo con la fantasia siento que

Dulcemente, sin miedo

....Te DeSeO...

miércoles, 8 de julio de 2009

Ni terroriste ni terrorisée



Appunti tratti da un saggio di TIquun sui dispositivi. Questo testo costituisce l’atto fondatore della S.A.S.C. , la Società Avanzamento della Scienza Criminale. La S.A.S.C è una associazione a fini non lucrativi la cui vocazione è di raccogliere anonimamente, classificare e diffondere tutti i saperi-poteri utili alle macchine da guerra anti-imperiali.

VI
[…]
Ciò che bisogna comprendere, in effetti, è che ogni dispositivo funziona
a partire da una coppia - inversamente, l'esperienza mostra che una coppia
che funziona è una coppia che fa dispositivo. Una coppia, e non un paio o
un doppio, perché ogni coppia è asimmetrica, comporta un maggiore e un
minore. Il maggiore e il minore non sono solo nominalmente distinti - due
termini «contrari» possono perfettamente designare la stessa proprietà,
ed è in un senso il caso più sovente - , lei nomina due modalità
differenti di aggregazione dei fenomeni. Il maggiore, all'interno del
dispositivo, è la norma. Il dispositivo aggrega ciò che è incompatibile
con la norma attraverso il semplice fatto di non distinguerlo, di lasciarlo
immerso nella massa anonima, portante di ciò che è «normale». Così in
una sala cinematografica, quello che ne urla, ne canticchia, ne si spoglia,
ne etc. resterà indistinto, aggregato alla folla ospedaliera degli
spettatori, significante in quanto insignificante, al di là di ogni
riconoscimento. Il minore del dispositivo sarà quindi l'anormale . È
questo che il dispositivo fa esistere, singolarizza, isola, riconosce,
distingue, poi riaggrega, ma in quanto disaggregato, separato, differente
dal resto dei fenomeni. Si ha qui il minore, composto dall'insieme di
quello che il dispositivo individua, predica e attraverso questo
disintegra, spettralizza, sospende; insieme con il quale ci SI assicura che
non si condensi mai, che si ritrovi mai ed eventualmente cospiri. È in
questo punto che la meccanica elementare del Biopotere si collega
direttamente alla logiaca della rappresentazione che domina la metafisica
occidentale.

La logica della rappresentazione è di ridurre ogni alterità, di far
scomparire ciò che è qui, che viene in presenza, nella sua pura ecceità,
e dà da pensare. Ogni alterità, ogni differenza radicale, nella logica
della rappresentazione è appresa come negazione dell'Identico che
quest'ultimo ha cominciato col porre. Ciò che differisce bruscamente e che
non possiede niente in comune con l'identico e così riportato, proiettato
su di un piano comune che non esiste e nel quale figura ormai una
contraddizione di cui teme uno dei termini. Nel dispositivo, ciò che non
è la norma è così determinato come la sua negazione, come anormale.
Quello che è solamente altro, è reintegrato come altro dalla norma, come
ciò che gli si oppone. Il dispositivo medico farà dunque esistere il
«malato» come ciò che non è sano. Il dispositivo scolare lo
«scaldabanco» come quello che non è obbediente. Il dispositivo
giudiziario il «crimine» come ciò che non è legale. Nella biopolitica
quello che non è normale risulterà così patologico, anche se noi
sappiamo per esperienza che la patologia è essa stessa, per l'organismo
malato, una norma di vita, e che la salute non è legata auna norma di vita
particolare ma ad uno stato di forte normatività, ad una capacità di
affrontare e di creare altre norme di vita. L'essenza di ogni dispositivo
è quindi di imporre una divisione autoritaria del sensibile in cui tutto
ciò che viene alla presenza si confronti con il ricatto della propria
binarità.
L'aspetto temibile di ogni dispositivo consiste nel fatto che si regge
sulla struttura originaria della presenza umana: che noi siamo chiamati,
richiesti dal mondo. Tutte le nostre «qualità», il nostro «vero
essere», si stabiliscono in un gioco con gli essenti in modo che la nostra
disposizione verso di loro non viene per prima. Per tanto, ci succede
correntemente, nei dispositivi più banali, come un sabato sera
spumeggiante tra coppie piccolo borghesi in una villetta di periferia, di
provare il carattere non più di richiesta ma di possessione, e anche di
estrema possessività che caratterizza ogni dispositivo. È questo che si
proverà nelle discussioni superflue che punteggerà questa penosa serata.
Uno dei Bloom «presenti» comincerà la sua tirata contro i
funzionari-che-sono-sempre-in-sciopero; fatto questo, il ruolo essendo
conosciuto, una contro-polarizzazione di tipo socialdemocratico apparirà
in un altro dei Bloom, che giocherà la sua parte più o meno felicemente,
etc. Qui non ci sono dei corpi che si parlano, è un dispositivo che
funziona. Ognuno dei protagonisti attiva in serie le piccole macchine
significanti pronte all'uso, e che sono sempre-già inscritte nel
linguaggio corrente, nella grammatica, nella metafisica, nel SI. La sola
soddisfazione che noi possiamo trarre da questo genere di esercizio, è di
aver giocato nel dispositivo con brio. La virtuosità è la sola libertà,
derisoria, che offre la sottomissione ai determinismi significanti.

Chiunque parla, agisce, «vive» in un dispositivo è in qualche maniera
autorizzato da esso. È costituito come autore dei suoi atti, delle sue
parole, della sua condotta. Il dispositivo assicura l'integrazione, la
conversione in identità di un insieme eterogeneo di discorsi, di gesti, di
attitudini: di ecceità. La reversione di ogni evento in identità è ciò
attraverso cui i dispositivi impongono un tirannico ordine locale al caos
globale dell'Impero. La produzione di differenze, di soggettività,
obbedisce anch'essa all'imperativo binario: la pacificazione imperiale
riposa interamente sulla messa in scena di una moltitudine di false
antinomie e di conflitti simulati: «per o contro Milosevic», «per o
contro Saddam», «per o contro la violenza»…La loro attivazione ha
l'effetto bloomizzante che conosciamo e che finisce per ottenere da noi
l'indifferenza onnilaterale sulla quale si appoggia l'ingerenza a pieno
regime della polizia imperiale. Non è altra cosa dalla pura siderazione
davanti al gioco impeccabile, la vita autonoma, la meccanica artistica dei
dispositivi e dei significati, che noi proviamo davantia qualsiasi
dibattito televisivo, se gli attori possiedono un po' di talento. Così,
gli «anti-mondializzazione» opporanno i loro prevedibili argomenti ai
«neo-liberali». I «sindacati» rigiocheranno senza fine al 1936 di
fronte a un eterno Comité des Forges. La polizia combatterà la feccia. I
«fanatici» affronteranno i «democratici». Il culto della malattia
crederà di sfidare il culto della salute. E tutta questa agitazione
binaria sarà il migliore garante del sonno mondiale. È così che giorno
dopo giorno ci SI risparmia con cura il faticoso dovere di esistere.

Janet, che ha studiato un secolo fa tutti i casi precursori del Bloom, ha
consacrato un volume a quello che chiama «automatismo psicologico». Egli
rivolge la propria attenzione a tutte le forme positive di crisi della
presenza: suggestione, sonnambulismo, idee fisse, ipnosi, medianismo,
scrittura automatica, disaggregazione mentale, allucianazioni, possessioni,
etc. La causa, o piuttosto la condizione, di tutte queste manifestazioni
eterogenee, egli la trova in ciò che chiama la «miseria psicologica».
Per «miseria psicologica» egli intende una debolezza generale
dell'essere, inseparabilmente fisica e metafisica, che si apparenta da
parte a parte a ciò che noi chiamiamo Bloom. Questo stato di debolezza,
sottolinea Janet, è anche il terreno della guarigione specialmente della
guarigione attraverso l'ipnosi. Più il soggetto è bloomificato, più è
accessibile alla suggestione e guaribile in questa maniera. E più egli
riscopre la salute meno questa medicina è operante, meno è
suggestionabile. Il Bloom è dunque la condizione di funzionamento dei
dispositivi, la nostra propria vulnerabilità a a questi. Ma al contrario
della suggestione, il dispositivo non mira mai a ottenere qualche ritorno
alla salute bensì ad integrarsi a noi come protesi indispensabile della
nostra presenza, come stampella naturale. C'è un bisogno del dispositivo
che quest'ultima non placa che per accrescerlo. Per parlare come i becchini
del CNRS (organismo ricerca universitaria) i dispositivi «incoraggiano
l'espressione»

Noi dobbiamo imaparare a cancellarci, a passare inosservati nella banda
grigia di ogni dispositivo, a camuffarci dietro il suo maggiore. Anche
quando il nostro impulso spontaneo sarebbe quello di opporre il gusto
dell'anormale al desiderio di conformità, dobbiamo acquisire l'arte di
divenire perfettamente anonimi, di offrire l'apparenza della pura
conformità. Dobbiamo acquisire queta pure arte della superficie per
condurre le nostre operazioni. Questo rinvia, ad esempio, a congedare la
pseudo-trasgressione delle non meno pseudo-convenzioni sociali, a revocare
il partito della «sincerità», della «verità», dello «scandalo»
rivoluzionari a profitto di una cortesia tirannica, attraverso la quale
tenere a distanza il dispositivo e i suoi invasati. La trasgressione, la
mostruosità, l'anormalità rivendicate formano la trappola più nascosta
che i dispositivi ci tendono. Voler essere, ovvero essere singolare, in un
dispositivo è la nostra principale debolezza, attraverso cui esso ci tiene
e ci mette in funzione. Inversamente, il desiderio, di essere controllato,
così frequente nei nostri contemporanei, esprime inanzitutto il loro
desiderio d'essere. Per noi, questo desiderio sarà piuttosto desiderio di
essere folli o mostruosi, o criminali. Ma questo desiderio è quello stesso
attraverso cui SI prende controllo di noi e ci neutralizza. Devereux ha
mostrato che ogni cultura dispone per quelli che vorrebbero sfuggirgli di
una negazione modello, un'uscita segnata, attraverso la quale questa
cultura capta l'energia motrice di tutte le trasgressioni in una superiore
stabilizzazione e l'amoc per i Malesi è in Occidente, la schizofrenia. Il
Malese «è precondizionato dalla sua cultura, forse a sua insaputa, ma
sicuramente in una maniera quasi automatica, a reagire a qualsiasi tensione
violenta, interiore o esteriore, con una crisi d'amoc. Nello stesso senso
l'uomo moderno occidentale è condizoionato dalla sua cultura a reagire a
ogni stato di stress con un comportamento in apparenza schizofrenico […
]essere schizofrenico rappresenta la maniera "accettabile" di essere folli
nella nostra società» (La schizophrénie, psychose ethnique ou La
schizophrénie sans larmes).

REGOLA N° 1 Ogni dispositivo produce la singolarità come mostruosità.
In questo modo si rinforza.
REGOLA N° 2 Non ci si libera mai da un dispositivo impegnandosi nel suo
minore.
REGOLA N° 3 Quando vi SI dà un predicato, vi si soggettivizza e vi si
dà una caratteristica, mai reagire e soprattutto mai negare. La
contro-soggettivazione che vi SI strapperebbe in quel momento è la
prigione dalla quale avrete sempre le maggiori difficoltà ad evadere.
REGOLA N° 4 La libertà superiore non risiede nell'assenza di predicato,
nell'anonimato per difetto. La libertà superiore risulta al contrario
dalla saturazione di predicati, dalla loro anarchica accumulazione. La
sovra predicazione si annulla automaticamente in una definitiva
impredicabilità. «Nel momento in cui noi non abbiamo più segreti, non
abbiamo più nulla da nascondere. Noi stessi siamo diventati un segreto,
noi che siamo nascosti» (Deleuze-Parnet, Conversazioni).
REGOLA N° 5 Il contro-attacco non è mai una risposta, ma l'instaurazione
di un nuovo dato.

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martes, 7 de julio de 2009