JULIANO MER-KHAMIS: L’ARTE COME RE-ESISTENZA
"Fare teatro a Jenin e' la mia personale vendetta contro la politica israeliana, la gente, il governo, il paese. Ero molto arrabbiato e frustrato. La mia vendetta e' stata ricostruire ciò che loro avevano distrutto", dichiaro' nel 2009 il regista assassinato ieri.
Gerusalemme, 05 aprile 2011, Nena News – Sdegno e sconcerto attraversano la popolazione palestinese dopo il brutale assassinio ieri nel campo profughi di Jenin dello stimato attore e regista ebreo-palestinese Juliano Mar-Khamis, fondatore del Freedom Theatre, uno dei piu’ importanti luoghi di produzione artistica e culturale indipendente nei Territori occupati. Mer-Khamis era divenuto noto per il suo film documentario “Arna’s Children”, sulla vicenda di alcuni bambini palestinesi coinvolti nell’attivita’ teatrale svolta dalla madre (ed attivista) Arna Mer alla fine degli anni ‘80 nel campo profughi di Jenin e in gran parte uccisi dai soldati israeliani durante la Seconda Intifada.
Migliaia di palestinesi e stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il regista ucciso, continuano a scrivere in Facebook la loro rabbia e il loro dolore per un atto che non ha alcuna giustificazione e che, sottolineano, “danneggia gravemente l’immagine del popolo palestinese”.
Nena News vi propone un’intervista di due anni fa a Juliano Mer-Khamis, tratta da “L’Arte come Re-Esistenza”, di Federica Battistelli, Laura Lanni e Lorenza Sebastiani (EMI 2009, pag.29-34), che illustra bene il pensiero dell’artista assassinato.
Perché hai riaperto il teatro e con quali obiettivi?
Una vendetta personale. È la prima ragione: la mia personale vendetta contro la politica israeliana, la gente, il governo, il Paese. Ero molto arrabbiato e frustrato. Così mi sono detto che la mia personale vendetta sarebbe stata ricostruire ciò che loro avevano distrutto. Questo a livello emotivo. C’è però anche un aspetto razionale nella mia scelta: avevo deciso di lasciare la scena di quel bordello per prostitute che è Israele, e stavo cercando altri spazi. Non potevo più far parte della cultura israeliana, che non è una cultura, ma una copertura per lo sciovinismo e l’arroganza e l’intero apparato di oppressione e di occupazione. Hanno costruito uno scudo di semicultura per supportare le loro azioni.
Non si può dire che Israele sia un luogo di cultura. Sono tutte pecore, non c’è spirito critico, non c’è opposizione. Io dovevo starne fuori. Mi sono detto che non potevo collaborare con questo sistema. Così ho deciso di aprire il teatro a Jenin. Questo ha anche degli aspetti tragici per me. Arrivare in un posto in cui il rispetto della tradizione religiosa impone regole oppressive nei confronti della donna, non è facile. Io non sono felice qui. Ma qui sto lottando con i miei amici. L’amicizia che abbiamo costruito, le relazioni che stiamo creando sono più forti del progetto in se stesso. Questo è quello che accade sempre all’inizio di un processo di cambiamento o di rivoluzione. Si inizia con un piccolo gruppo. Così ci siamo ritrovati io, Jenny, Adnan e Jonathan, e proviamo a fare arte nel bel mezzo dell’anti-arte. Visto che siamo tutti stranieri, ci muoviamo molto lentamente. Ci troviamo arenati nell’oceano dell’Islam, nello tsunami della tradizione, nel fango dell’oppressione nei confronti della donna. E siamo in un grosso dilemma: spesso ci chiediamo se stiamo legittimando, l’oppressione nei confronti delle donne e dei bambini con discorsi di libero pensiero e libertà dell’arte, vestiti di begli equipaggiamenti colorati. Ci adattiamo, perché la società ci accetti o andiamo a fondo ai problemi che la attanagliano rischiando così le nostre vite? Noi abbiamo deciso di rischiare, ma i risultati non sono così evidenti, perché stiamo procedendo molto lentamente.
È un processo lento, che mi affatica molto. Mi annoia, e il peggior nemico di un artista è la noia. Ci togliamo le uniformi di artisti e indossiamo quelle di operatori sociali, un lavoro più noioso.
Speriamo di andarcene dal campo per spostarci in una zona franca, un punto che sia terra di nessuno, dove avere più spazio di manovra, tra il campo e la città e i villaggi, dove poter giocare con le tradizioni, e attivare maggiori cambiamenti, fare da ponte tra la città, che rappresenta la modernità, e i villaggi e le periferie, che sono i luoghi più conservatori. Potremo essere il collegamento, una porta, una finestra.
È così difficile il rapporto fra campo e città?
Lo è perché noi rappresentiamo una minaccia. Siamo moderni, siamo attraenti e siamo liberi. Il nemico della religione e della tradizione è la libertà e noi siamo il nemico perché siamo il Freedom Theatre, non c’è bisogno di essere dei filosofi per capire che siamo una bomba a orologeria..tic..tic..tic..
Specialmente per le ragazze e per le donne. Si è creata una mistura velenosa di religione e tradizione, in cui la tradizione interpreta la religione e la religione integra la tradizione. Perché quando tutte le altre strutture dell’identità crollano, o vengono distrutte, gli uomini tornano alle basi più elementari della propria identità, cioè ad Allah. Non c’è più politica, non ci sono strutture sociali, non c’è cultura, e non c’è comunicazione. E non c’è religione in termini di valori, ma solo di regole e di ordini, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Questo si mescola con la tradizione e rappresenta un pericolo per la libertà.
Parlaci del vostro progetto di mettere in scena La fattoria degli animali.
Era un progetto rivolto alle ragazze. Abbiamo iniziato a incontrare un gruppo di ragazze, ma alcune non hanno voluto esibirsi davanti agli uomini. Hanno fatto un buon lavoro, ma con le donne e per le donne, come in un piccolo club.
A ogni modo tutto ciò di cui parlo è un risultato diretto dell’occupazione. È vero, accade in altri Paesi, ma sono anch’essi occupati, e forse in misura maggiore che qui. Iraq, Iran, Egitto: sono tutte brutali occupazioni, prodotti dell’imperialismo americano e della corruzione delle leadership arabe. La modernità è una delle strade per uscire da questo vicolo cieco, ma non la lasciano entrare, né qua né là. È Israele a volere questo, in Israele si festeggia per quel che accade a Gaza. Come Bin Laden è una vittoria per gli Stati Uniti. Non c’è nemico migliore di una arabo con la barba nera e la kefia che grida «Allah è grande». È facile convincere qualsiasi bianco occidentale che questo pericolo minaccia anche lui, i suoi valori, e le sue libertà. Fa parte di un piano: spingere la gente a tornare nelle moschee e all’oscurantismo religioso, e presentare come religioso il conflitto tralasciando i suoi aspetti di libertà e di indipendenza.
Noi facciamo del nostro meglio, ma è una piccola goccia. Siamo arenati tra l’arroganza e il fascismo israeliani e una società islamica tradizionalista.
Pensi che la gente del campo senta la necessità di quello che state facendo? Che voglia il teatro?
Io penso che le persone di qui non ci vogliano, che non vogliano l’arte. Ma chi sono queste persone? È una generazione persa, che non può cambiare e noi non siamo qui per loro, non siamo qui per gli adulti. Noi siamo qui per i bambini e i bambini ci vogliono, sono assetati e affamati di quello che facciamo. Se i genitori non li trattenessero, preservandoli da ciò che considerano corruzione, noi saremmo invasi da centinaia di bambini e bambine. Alcuni riescono a spezzare le catene della famiglia e delle convenzioni sociali, ma i loro genitori sono molto forti. Siamo all’inizio e rappresentiamo ancora una piccola opzione.
Sembra che dal combattere l’occupazione siate passati a combattere il modo di vita tradizionale.
Sì, ma non c’è contraddizione in questo. Combattendo l’occupazione e l’oppressione, si costruisce una società moderna, libera, e forte, che sia capace di opporvisi. Non vogliamo formare dei buoni cecchini. Insegniamo a essere buoni cecchini, ma in internet o con la macchina fotografica, per aprirsi, per diventare indipendenti e creativi, almeno tanto quanto gli occupanti occidentali. Questa è la vera lotta contro l’occupazione. Perché, ciò che l’occupazione sta facendo è distruggere la società. Costruire sulla base non della tradizione e della religione, ma della libertà, di strutture democratiche, di un alto livello educazione e della libera opinione, della cultura. Questa è la forza.
A fianco del teatro avete quindi altri progetti…
Il teatro è solo una scusa, noi facciamo arte in genere: scrittura creativa, photoshop, computer, fotografia, psicodramma, realizzazione di film, terapia teatrale. Non siamo il teatro nel senso tradizionale, usiamo tutti i mezzi dell’arte prima per comunicare con il mondo, poi per ricostruire l’identità perduta. Chi siamo? Dove stiamo andando? Cosa pensiamo? Perché siamo in questa situazione? Quale tipo di indipendenza vogliamo e come possiamo costruire identità senza cultura? Altrimenti si creano tanti soldatini. La ricerca dell’identità può avvenire solo tramite l’attività culturale. C’è bisogno di un riflesso di se stessi. È così che si costruisce il sé: riflettendo se stessi su uno schermo, nelle pagine di un libro, creando un dibattito, un dialogo. Combattere la tradizione è combattere l’occupazione.
Pensi che il Freedom Theatre sia in grado di offrire un’alternativa nonviolenta a questi bambini?
No. Non credo questo. Noi non rappresentiamo un’alternativa, siamo solo un altro strumento di resistenza. Non siamo nonviolenti. Non considero la cultura un’altra religione che da sola possa risolvere tutto. Non credo che cantando canzoni i carri armati si sciolgano. Questo discorso va bene per chi viene qui semplicemente per sentirsi utile e partecipare. Sono sciocchezze.
Credo che diversi mezzi di resistenza possano convivere. La resistenza contro l’occupazione è prima di tutto armata, violenta, ma poi deve essere supportata dalla cultura, da un movimento di popolo, ed eventualmente dall’arte.
Un’occupazione deve e può essere combattuta con ogni mezzo. La tragedia della Palestina è che dalla resistenza armata si è passati a uccidere bambini sugli autobus a Tel Aviv. E da mezzo legittimo di resistenza, la guerriglia è diventata terrorismo. Così l’intera fotografia è distorta. Oggi dico ai miei amici «mettete giù i fucili perché i vostri fucili sono vuoti», vuoti di contenuti, di identità, le vostre pistole sono solo espressione di un sentimento personale di vendetta e di non sottomissione a questa occupazione, ma la rivoluzione privata finisce sempre nel niente. Allora abbassate i vostri fucili adesso e lavorate e poi forse li riprenderete in mano quando sarete pronti, quando sarete qualificati per alzare la pistola della libertà. E la maggior parte di loro ha messo giù i fucili, ed è andata a lavorare per costruire ciò che era distrutto a causa della stupidità, degli errori, del collaborazionismo, della corruzione, del tradimento.
Io spero che saremo capaci di creare il terreno, le condizioni per cui quando i bambini affronteranno la terza Intifada, che si sta preparando, saranno in grado di darsi un nuovo orizzonte di senso, di conservare i loro valori di liberazione e di non cadere nelle trappole dell’occupazione e diventare uno specchio del loro nemico. Ma per questo bisogna costruire un’identità molto forte nelle persone, che non ceda a sentimenti di vendetta, fatta di valori universali, cultura, consapevolezza e conoscenza: se qualcuno uccide tua figlia, e tu hai la forza di non uccidere sua figlia, hai la forza di resistere e mantenere i tuoi valori, allora sarai in grado di batterli perché sei più forte come essere umano.
Quali sono i soggetti che mettete in scena?
Dato che tutti i partecipanti a questo progetto sono persone che hanno posizioni radicali dal punto di vista politico, tutto ciò che avviene qui è un riflesso del loro pensiero critico. Nel senso che dallo staff ai bambini, tutti hanno un atteggiamento critico, sono volti verso la ricerca e i soggetti rappresentati sono un riflesso di questo spirito.
Il teatro sociale è stato criticato perchè sfruttato dalla politica..
Io penso che ci sia il buon teatro e il cattivo teatro. Shakespeare può essere politico, Brecht può essere sociale… dipende da ciò che ci fai, quando lo fai, come lo fai. Il cattivo teatro è cattivo teatro, che sia esso politico o sociale. Ovviamente se ha la funzione di indottrinare il pubblico è un cattivo teatro.
Noi non siamo ancora un teatro. Stiamo costruendo il terreno per l’arte teatrale, stiamo creando un’atmosfera, stiamo ribaltando l’idea che la gente qui ha del teatro, come di un bordello. Stiamo cercando di costruire un’idea differente nella loro mente. Siamo lontano da scopi commerciali o politici. Ogni piccolo passo qui è una rivoluzione, ogni gesto è un mattone verso la creazione di una cultura di accoglienza, in cui essere accettati con la nostra identità di spazio dedicato all’arte. Nena News
ARNA'S CHILDREN tells the story of a theatre group that was established by Arna Mer Khamis. Arna comes from a Zionist family and in the 1950s married a Palestinian Arab, Saliba Khamis. On the West Bank, she opened an alternative education system for children whose regular life was disrupted by the Israeli occupation. The theatre group that she started engaged children from Jenin, helping them to express their everyday frustrations, anger, bitterness and fear. Arna's son Juliano, director of this film, was also one of the directors of Jenin's theatre. With his camera, he filmed the children during rehearsal periods from 1989 to 1996. Now, he goes back to see what happened to them. Yussef committed a suicide attack in Hadera in 2001, Ashraf was killed in the battle of Jenin, Alla leads a resistance group. Juliano, who today is one of the leading actors in the region, looks back in time in Jenin, trying to understand the choices made by the children he loved and worked with. Eight years ago, the theatre was closed and life became static and paralysed. Shifting back and forth in time, the film reveals the tragedy and horror of lives trapped by the circumstances of the Israeli occupation.
non conoscevo la storia. andando a cercare in internet qualcosa in più su di lui e sul teatro ho trovato sua madre e questo pezzo del documentario "arna's children"
ResponderEliminaranch'io odio l'inverno
"hai questa sciarpa dal 1948...
non mi ricordo perchè iniziai a portarla ma allora eravamo giovani e belli
avevamo 18-19 anni, eravamo giovani
a quell'età è tutto bello.
anche le cose più orribili...
le cose che poi contestualizzi trenta o quarant'anni dopo.
quegli anni erano pieni di giovinezza e di eccitazione.
ci si ricorda solo il coraggio...
l'orgoglio
la bellezza
il potere"
e ho avuto, sola, la sensazione si un furto, di una sottrazione...
spero che i prossimi, questi attuali, siano anni pieni di giovinezza e di eccitazione
in cui ci si ricordi solo il coraggio
mi mancate dappertutto, ovunque siete