Pier Paolo Pasolini, "Empirismo eretico", Garzanti, Milano
La poetica di Pasolini si perde nello spirito del deforme, del mostro, dell’altro da sé. E’ il suo viso a testimoniarlo; agro, amaro quanto dolce e femmineo. Un viso dai tratti somatici animali, attraversati da rughe, occhiaie ed occhiali neri che premono sui suoi occhi come il mondo politico ed intellettuale che lo ha lentamente portato alla morte. E’ questo lo iato che esprime la poetica pasoliniana della differenza, continua, radicale, immediata, sfrontata, colpevole e colpita e, soprattutto, senza via d’uscita. Scelte di vita, scelte di morte. Paesaggi urbani. Paesaggi carnali. Paesaggi sventrati. Questo racconta la geografia del suo corpo dilaniato la notte tra l’uno e il due novembre. Una morte che sembra liberare le sue angosce e il suo nichilismo, trasformandolo in paesaggio urbano. Lo sprawl delle sue membra abbatte il confine tra la forma-città e la forma-metropoli che lui ha indagato come antropologo urbano attraverso la sua produzione cinematografica con metodologie sporche, marce, queer. Punxolini quindi come esperienza punk moltiplicata nella descrizione di immaginari a venire e nel no future. Queer come linguaggio della sovversione attraverso il ribaltamento radicale dei codici linguistici del potere. "Pasolini", come ricerca ed espressione del desiderio oltre i confini del pensiero filosofico politico della dialettica.
Angelus diabolicus della narrazione cinematografica, Pasolini sembra essere impossessato dalle visioni urbane di Walter Benjamin nella sua lettura antropologica della città. Se il Walter immaginifico costruiva città di luce su architetture di giochi linguistici wittegensteiniani, impossessandosi del centro di Parigi attraverso slittamenti centripeti da un boulevard a un altro, Pasolini opera in senso opposto. Il suo è un movimento centrifugo, uno spasmo erotico che lo porta oltre confine, lì dove metropoli in divenire e umanità perduta ballano una danza macabra. La sua è estetica del rifiuto dove le vacche grasse sono impazzite e il marcio urbano produce conati. Pasolini si rigenera in questo vomito orgasmatico e, autoconsapevole della bellezza della mostruosità, prende la sua deriva conoscitiva.
Il suo caronte è Ninetto Davoli, che gli dona la romanità, introducendolo nelle definizioni sociali provenienti dai giochi linguistici come architetture basiche della geografia perduta di Roma. E’ lo splendore abortito della borgata ad essere l’estensione spontanea delle sua faccia; questa continua vertigine ossimorica di durezza e dolcezza senza soluzione di continuità. Il cordone ombelicale è il cappio con il quale si impiccherà. La sua è una messa nera. La celebrazione del demonio. Il suo bacio anale, lì dove bene e male perdono senso come categorie morali. Il lumpenproletariat romano diventa il soggetto narrante. Attraverso la sua violenza, Pasolini si libera liberando, librandosi. Il doppio vincolo della corruzione/salvazione dei suoi rapporti di strada stravolge il concetto di morbosità rendendo il suo pericolo una linea libertaria, tanto quanto lo sperma lasciato a tracciare le borgate come segnale territoriale.
Non c’è nulla di cattolico in tutto questo, quanto un respiro rituale pagano metropolitano. Magia sessuale. Zone occulte. Transluoghi. Immondizia. Pasolini non vuole redimere, quanto cantare l’estetica del potere attraverso il suo corpo, senza remore e proroghe, in prima linea. Una linea oscura, fatta di cruising areas dove il denaro pagato non è solo un modo di acquisire sesso ma di godere del piacere della corruzione. Pasolini è nudo nel suo desiderio. E le sue vibrazioni carnali narrano povertà e abuso, godendo del circo di stracci di cui lui stesso è bestia feroce. La deflagrazione è il punto di passaggio dove l’amore non può che essere miserabile. Ed è proprio nel passaggio forzato della borgata, come urto anale della carne attraverso lo stupro, a liberare. Nella logica pasoliniana, se la proprietà privata è il male, farsi possedere violentemente, vivere l’abbandono dell’atto, lasciare il senso della proprietà del corpo attraverso lo stupro, è il momento massimo di liberazione, di autoconsapevolezza. Pasolini è posseduto dal male, dalla mostruosità, dagli accattoni, dalle fisiognomiche distorte di Franco Citti, dal Borghetto Prenestino, dalla Magliana, da Roma puttana, madre e lupa. Pasolini non vuole fare retorica di classe, quanto erotica feticizzante. Ciò lo rende orizzontale rispetto ai suoi interlocutori. Il solo suo modo di abbattere il potere è incorporarlo.
Il suo atto più poetico e libertario risiede, appunto, nel suo film più dolce: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Dolce nell’omaggio ad uno dei fuorilegge più libertari della letteratura e filosofia europea, Pasolini dedica il suo ultimo urlo strozzato a De Sade. Su Salò si è detto tutto, in un bisogno spastico di riduzionismo e di neutralizzazione da parte della comunità intellettuale e politica, del pericolo che un film del genere rappresenta. Espressione dolce proprio nel suo nichilismo - quando ormai Pasolini era stato messo ai margini, alle corde nel suo essere radicalmente freddo, distaccato dal panorama politico sociale italiano - Salò è un atto d’amore che lui concede al desiderio. Al proprio desiderio. E’ troppo facile pensare il film come teatralizzazione del potere attraverso interpretazione dei 4 "signori". E’ troppo facile porre Pasolini al di fuori del film, usando l’opera come analisi critica del momento storico in corso. E’ ancora troppo cattolico distaccarsi dal film, distaccarsi dall’eccitazione, dal coinvolgimento genitale che il film produce, dalle erezioni incontrollate della sinistra che ben pensa e nega.
Ma Pasolini è lì. Pasolini è un pornografo. Egli usa il linguaggio dei corpi in modo sfacciato ed evidente per accedere alle sfere del profondo, dove le forme di potere attecchiscono nell’invisibilità del loro quotidiano. Egli agisce sulle meccaniche della morale mettendosi in gioco per primo. Pasolini è lì, nei chiodi vomitati dai ragazzi sottomessi come cani. Pasolini è lì, nella merda mangiata nel pranzo nunziale. Pasolini è lì, nel travestitismo dei signori del potere. Pasolini è lì, nella delazione. Pasolini è lì, nel ripetuto piacere dell’omicidio simulato. Pasolini è li, tra fascismo e anarchia. Pasolini è lì, cantore della sua fine. Il cantore dell’unica vera sconcezza necrofila, l’accanimento giudiziario postmortem sul cadavere del desiderio.
Testo di Francesco Macarone Palmieri