lunes, 21 de septiembre de 2009

"Follia portami via"


Conosco Alfredo perché, da quelle che lui chiama "le sue parti", lo conoscono, è vero, un po’ tutti.
Quasi ognuna di noi ricorda di averlo incontrato, quando Pordenone aveva un altro colore, e di Alfredo non ci si può dimenticare. Abbiamo saputo che scrive grazie a Pia Covre e Carla Corso ed ora che l'abbiamo ritrovato anche in quanto scrittore ci sembra necessario diffondere come possiamo la sua sana follia.
Nonostante la distanza -data dal nostro vivere all'estero- sosteniamo l'importanza di racconti come il suo perché ci rendiamo conto profondamente del valore -spesso in Italia negato- di persone come lui che hanno saputo resistere e cambiare quella che è la grigia monotonia italiana che conosciamo tutt*.
E’ nato in Friuli, all’ospedale di Aviano, per metà pugliese e per metà calabro; ora vive a Pordenone ad "uno schioppo dal centro" in un luogo che descrive con minuzia terrificante e dove ci piacerebbe poterlo incontrare di nuovo.

La follia di cui parla Alfredo è, finalmente, vita. Della quale pochi hanno il coraggio di parlare, soprattutto nella provinciale Pordenone dove -di norma- non si vede: niente, ni una pluma.
Alfredo è una trasfigurazione costante; il suo modo di vestire -di mostrarsi- fa paura perché rappresenta, per le regole della potente borghesia industriale che lo circonda (costituita da contadini arricchiti e ambiziosi medio-piccoli imprenditori), una minaccia.
In Friuli le drag queen sono arrivate con lui. Crede che "ogni persona che ha una storia da raccontare dovrebbe scrivere un libro" e quella che racconta è la sua storia.
Riporto qui un brano esageratamente bello che Alfredo ha scritto e che io ora sto leggendo, bellissimo perché so che è onesto ...cioè che lui lo vive davvero, e lo scrive, con responsabilità autentica:
"Amatevi fino ad arrivare a tagliarvi un orecchio possedete fino a temere di perdere tutto, perdete tutto, ma non coltivate il rimpianto. Andate in Polinesia, o dovunque il vostro verme o chi per lui vi guidi, scrivete, fino a lacerarvi le dita, rubate ogni attimo ai vostri sogni, non fateli respirare perché essi finiranno per vivere al vostro posto. Correte in mezzo ai tori gettatevi nella spazzatura, o dal treno che vi porta lontano da quello che siete (…) Dipingete fino a nausearvi di vita, di vita giusta, di vita sbagliata. L’amaro con il dolce ricordate? Crescete i vostri girasoli nel deserto, prendete tutto, gioie e dolori, non perdete il coraggio…" (p. 126)

Spero così che la curiosità di leggerlo e di cercare altre storie come la sua e altri-e sconosciuti-e divenga urgenza, finalmente, anche per te.


Follia portami via, autori: Alfredo Follia, Alessio Pasquini. Biblioteca dell’immagine 2005, 139p.

viernes, 18 de septiembre de 2009

Grisélidis Réal


Traduzione dal francese all’italiano, fonte: wikipedia

Nata a Losanna nel 1929 in una famiglia d’insegnanti; Grisélidis raggiunge suo padre all'età di sei anni ad Alessandria d'Egitto, poi ad Atene, dove lui muore mentre lei ha solamente 9 anni. Ritorna a Losanna con sua madre e riceve da lei un'educazione molto rigida contro la quale si rivolta. Intraprende gli studi di Arti Decorative a Zurigo e si diploma nel 1949. Si sposa a 20 anni, ha un primo figlio nel 1952, si separa da suo marito e ha una figlia nel 1955 con un altro uomo. Durante un tentativo di riparare il suo matrimonio ha un secondo figlio nel 1956 ma tutto finisce ugualmente e divorzia. Avrà un quarto bambino nel 1959, ancora un figlio. Poi parte con sua figlia, il suo secondo figlio e il suo nuovo compagno, per la Germania. Si ritrova senza denaro, senza documenti e senza il diritto di lavorare, così nel 1961 decide di prostituirsi in un bordello clandestino di Monaco per nutrire i suoi tre bambini.
Viene incarcerata per avere venduto della marijuana a soldati americani e viene poi rimpatriata in Svizzera dove continua a prostituirsi per qualche tempo. Ha cominciato a scrivere in prigione e a dipingere. Tenta di lasciare la prostituzione per dedicarsi alla creazione artistica.
Il suo primo libro, Le Noir est une couleur -Il Nero è un colore- (Balland, 1974) è un lavoro autobiografico.
Durante gli anni ‘70 Grisélidis Réal diventa un attivista, una delle sobillatrici della "Rivoluzione delle prostitute" a Parigi: 500 prostituite occupano la Cappella San Bernard nel giugno 1975 e richiedono la riconoscenza dei loro diritti. Rigettando l'argomento secondo cui una donna si prostituisce solamente se è obbligata dal protettore, dichiara che la prostituzione può essere anche una scelta, una decisione. Considera importante ciò che riportano i suoi documenti ufficiali cioè che non solo è scrittrice ma anche "péripatéticienne" -prostituta-, che considera come una seconda professione.
Appare, filmata nel suo appartamento nel 1975 o 1976, alla fine del documentario: Prostitution di Jean-François Davy.
Grisélidis porta la sua "Rivoluzione" a Ginevra nel 1977 e riprende la prostituzione, attività abbandonata sette anni prima. È una delle fondatrici nel 1982 dell'associazione in difesa delle prostitute: Aspasie. Ha esteso la sua battaglia partecipando a conferenze internazionali, parlando di ciò che considera come il suo mestiere nelle università concedendo numerose interviste ed animando delle riunioni pubbliche. Nel suo piccolo appartamento dei Pâquis, crea un centro internazionale di documentazione sulla prostituzione.

Parallelamente a questa battaglia politica, Grisélidis Réal ha sempre rivendicato un ruolo sociale della prostituzione che considera come un'attività che alleggerisce le miserie umane e che ha la sua importanza. Nel 1977 scrive: “…la prostitution est un acte révolutionnaire” -...la prostituzione è un atto rivoluzionario-.

Ha sviluppato una visione positiva di ciò che ha chiamato nel gennaio 2005 (nella prefazione di Carnet de bal d'une courtisane, Taccuino di ballo di una cortigiana) “un Art, un Humanisme et une Science” -un’Arte, un Umanesimo ed una Scienza-. Ma riconosceva anche il lato sordido del suo lavoro, di cui parlava in termini crudi. Lontano da ogni caricatura e da qualsiasi posizione morale, col suo spirito libero e senza compiacenza, ma attraverso una generosità autentica, Grisélidis Réal ha incarnato una vera visione della dignità umana.

Grisélidis Réal smette di prostituirsi nel 1995 all'età di 66 anni dopo trent'anni di attività, quattro bambini ed undici aborti. Tre anni prima, nel 1992, pubblica La Passe imaginaire -Il Passaggio immaginario-, raccolta di lettere inviate all’amico Jean-Luc Hennig tra l'estate del 1980 e l’inverno del 1991. Un secondo volume Les Sphinx -Le Sfingi- riunisce le lettere che lei gli ha scritto a partire dal giugno 2002, l'ultima è datata 26 maggio 2005. Muore di cancro il 31 maggio 2005.

Mettendo dell'ordine nei suoi documenti, i figli scoprono dei manoscritti inediti di cui uno viene pubblicato nell’ottobre 2008: Suis-je encore vivante? Journal de prison -Sono ancora viva? Giornale di prigione-; si tratta in effetti della sua prima opera, scritta all'epoca della detenzione in Germania.

Opere:
• Le Noir est une couleur, Paris, Balland, 1974 ; Lausanne, Éditions d'en bas, 1989; Paris, Verticales, 2005.
• La Passe imaginaire, Vevey, L'Aire/Manya, 1992; Paris, Verticales, 2006.
• À feu et à sang, recueil de poèmes écrits entre mai 2002 et août 2003, Genève, Éditions Le Chariot 2003
• Carnet de bal d'une courtisane, in "Le Fou parle" 11 (décembre1979); Paris, Verticales, 2005.
• Les Sphinx, Paris, Verticales, 2006.
• Le carnet de Griselidis, paroles de Grisélidis Réal et Pierre Philippe, musique de Thierry Matioszek et Alain Bashung, chanson interprétée par Jean Guidoni sur l'album "Putains", 1985.
• Suis-je encore vivante? Journal de prison, Paris, Verticales/phase deux, octobre 2008.

lunes, 14 de septiembre de 2009

Shadi Ghadirian: Like Every Day (Domestic Life)















Una imagen vale más que mil palabras. Quizá por eso impacte tanto ver una foto en la que una escoba, una olla o una taza de té ocupan el cándido lugar de una mujer musulmana. Pero, como hay diferentes concepciones de lo femenino, quizá la imagen no sea tan importante como las noticias que llegan sobre la vida cotidiana de las mujeres por aquel lugar del mundo. De cualquier modo, las fotografías de Shadi Ghadirian sorprenden tanto a las miradas occidentales como a las de su propio mundo.
Ella dice que “Por accidente, los temas de mis dos primeros trabajos fueron las mujeres”. Sin embargo, desde entonces, cada vez que pienso en un nueva serie, de alguna manera está relacionado con las mujeres”, dice. En una cultura tan sensible a la exposición de la mujer y tan estricta, una fotógrafa retratando chicas puede resultar ofensiva y peligrosa. Sin embargo, Shadi toma sus precauciones: “Siempre utilizo el pañuelo en mis modelos, para protegerlas y también porque es una parte de nuestra realidad. Pretendo mostrar nuestra vida, y el chador “
La fotógrafa Shadi Ghadirian nació en Teherán en 1974, su trabajo recorrió lugares tan variados como Copenhague, Londres, Berlín o Madrid. Sin embargo, ella sigue en Irán. Desde este lado del mundo, su trabajo impresiona porque condensa en una imagen una situación particular histórica, social y geográfica. Y las diferencias se hacen notar a cada paso: “Lo que hace cuatro años no podía mostrar por el riesgo que corría la galería, ahora ya ha sido expuesto. De todas maneras, todavía no puedo exponer fotografías de mujeres que muestren su cabello y que no se cubran con un pañuelo”, decía la artista. En estos días Internet funciona para ella como una (segura) galería virtual donde pueden verse sus dos series más famosas “Qatar” y “Como cada día”. Y son muy distintas entre sí.

Las fotos de “Como cada día” se adentran en la rutina femenina del matrimonio. El chador ahora no cubre personas, sino objetos relacionados con el mantenimiento del hogar en clara alusión a la mujer-objeto.

“Quizá la única percepción de un extranjero sobre la mujer iraní es un chador negro. Yo trato de representar todos los aspectos de la mujer iraní y eso depende por completo de mi propia situación”, reconoce Shadi. De hecho, el punto en común de su trabajo es aquel “manto” usado por las mujeres de religión musulmana en algunas regiones de Medio Oriente y que cubre desde la cabeza hasta los dedos de los pies.
Más allá de las singularidades, en las series fotográficas se percibe cierta dimensión irónica, a veces obvia y a veces improbable, que se logra a partir de la adición, sustracción o repetición de cierto elemento. Suele decirse que estas pequeñas licencias, siempre sutiles, sirven para crear la ilusión de un comentario socio-político. Y este no es un elemento menor a la hora de conocer a esta artista: “El lugar que ocupan las mujeres iraníes en el mundo es importante para mí porque estoy segura que nadie sabe mucho de ello”.

Ex alumna del Departamento de Fotografía de la Universidad de Teherán ,Shadi se muestra también como una verdadera activista cultural y su trabajo no sólo tiene alto impacto desde el punto de vista artístico. De hecho, ella es una de las responsables de Women in Iran , un prometedor sitio con temas e información actualizada sobre la mujer en Irán (pero todavía no tiene su versión en inglés). Del mismo modo que temió por la galería, en algún momento temió por su vida, por su familia, por sus modelos, por su trabajo… Quizá por eso sus modelos siempre usan pañuelos, las imágenes siempre son borrosas o se codean más con la fotografía artística que con el fotoperiodismo.


Entrevista a Shadi por Dídac P. Lagarriga (2003):

-¿Cómo ves la creciente actividad, gracias a Internet, de proyectos sobre la mujer en Irán?

Actualmente hay muchas páginas como la nuestra publicadas desde el mismo Irán. Es bastante fácil el acceso, aunque lento. womeniniran está recibiendo en los últimos seis meses multitud de visitas.

-¿Cómo afecta el control y la censura por parte del gobierno?

Obviamente hay represión, y algunas páginas han sido cerradas. Pero es imposible de controlarlo todo en un medio tan esquivo. También depende del grado de crítica que contengan las páginas. Por ejemplo hay escritores arrestados, pero también hay páginas que escapan al control.

-Leí hace tiempo que algunos de tus trabajos no pueden mostrarse en Irán.

Es cierto, pero por ejemplo lo que hace cuatro años no podía mostrar por el riesgo que corría la galería, ahora ya ha sido expuesto. Tuve una exposición de este trabajo (donde se insinuaba el cuerpo de la mujer mediante encuadres borrosos) hace tan solo un mes. De todas maneras todavía no puedo mostrar fotografías de mujeres que muestren su cabello y que no se cubran con un pañuelo.

-¿Tienes miedo de ser arrestada por tu trabajo?

No, no creo. Siempre utilizo el pañuelo en mis modelos, también porque es una parte de nuestra realidad. Conozco mis límites y tampoco pretendo buscar la provocación y la confrontación explícita. Pretendo mostrar nuestra vida y el velo y el hyjab son parte de ella.

-Pero al mismo tiempo siempre estás utilizando el estudio y la modelo. Tus fotos tienen mucho de ficción y no son meros documentos.

Sí, creo que ya tenemos muchísimos documentalistas. La fotografía iraniana, a causa de la guerra y la revolución, se decantó casi exclusivamente por el fotoperiodismo. En los últimos años lo artístico va apareciendo en la fotografía.

-¿Hay una relación muy estrecha con el cine?

Indudablemente. También la repercusión del cine iraní en el resto del mundo nos ayuda a promocionar el resto del trabajo artístico. Con el cine la gente puede identificarse más con nuestra realidad. También es cierto que muchas personas en Irán no tienen la posibilidad de mostrar su trabajo fuera, ya que hay problemas con los visados. Pero la calidad del arte (escrito, visual, etc...) es muy alto en Irán. No sólo en el cine.

-¿Has expuesto fuera de Europa y los Estados Unidos?

Únicamente en Kuwait. En Europa he tenido más de 15 exposiciones, pero en los países árabes es más difícil. Tengo prevista una en Egipto y otra en Dubai para el próximo año.

-Quizá muchas veces se piense sólo en la posibilidad de exponer en Europa o EE.UU...

Sí, pero también es verdad que en estos países tienen más posibilidad de organizar eventos. Son razones económicas. También creo que los europeos no saben casi nada de nuestros países. Y es momento de mostrarlo.

-En una entrevista leí que no querías quedarte a vivir en Londres cuando tuviste la oportunidad. ¿Te has planteado establecerte en otro país?

No, no podría. Adoro mi país, y también hay mi madre, mi marido...

-¿Cómo ves tu condición de mujer, artista e iraní en relación al mundo artístico?

En Irán es más fácil, a veces, dedicarse a la fotografía siendo mujer. Tienes acceso a espacios privados que un hombre no dispone. En el campo del mercado internacional, donde quizá parezca que siempre se está buscando algo nuevo, no he tenido este sentimiento.

-Parece que algunos comisarios europeos se dirigen a estos países en busca de algo nuevo para vender.

No siempre es así. Por ejemplo con los comisarios que yo he trabajado nunca me he sentido así. Hay un gran interés por mi trabajo, y me han ayudado. A veces también he organizado exposiciones por mí misma, y siempre me he sentido libre en este aspecto. Creo que soy respetada como artista y no soy vista como algo exótico.

-¿Cómo es el acceso, por ejemplo, a libros extranjeros?

Hay algunas librerías grandes, donde hay importación. También hay una feria internacional muy importante cada año, donde nuestros pedidos son servidos y cobrados en dólares. También es verdad que en correos a veces censuran algunos de los envíos.

-Estaba pensando sobre el vestido. Pero no sólo en el velo, sino como es usado el vestir.

Es muy lindo cómo las mujeres usan el vestido en Irán. Creo que es bastante diferente a otros países. Hay variedad también dependiendo de cómo interpreten su cuerpo en relación a la comunidad. No hay muchas, pero las que son religiosas van todas de negro. En mi caso voy vestida con pantalones, y trajes-chaqueta. Llevo un pañuelo en la cabeza, pero es muy pequeño. Mi larga cabellera sale por todas partes. En el interior de las casas todo cambia. Puedes realmente vestir como quieras. Tenemos también muchas tiendas como Zara y Mango y lo que venden es exactamente lo mismo que pueden vender en otra parte. También hay diseñadores autóctonos, como por ejemplo toda la línea para azafatas. O las parlamentarias.

-¿Por qué crees que Europa tiene tanta obsesión con un trozo de tela?

Para mí el velo es como mi pelo. Crecí con él y no entiendo porqué los europeos tienen esta fijación despectiva. Mis problemas como mujer en Irán no son estos; hay cosas realmente importantes.

-¿Crees que debemos todavía hoy creer en Occidente? ¿No es sólo un mito más?

Exacto, hablamos de Occidente como hace siglos hablábamos de Oriente. Algo homogéneo y real, sin fisuras. Soy optimista en este sentido, creo que se van diluyendo estas fronteras. Poco a poco las culturas se van conociendo y mezclando. Hay mezclas muy interesantes. Por ejemplo las generaciones jóvenes en Irán son, en algún sentido, muy diferentes. Internet, satélite... Paradójicamente también es cierto que después del 11s parece que nos estemos volviendo a encerrar. Mi próximo proyecto tratará de cómo Internet aterrizó en mi cultura. En cierto sentido creo que la obsesión por conectarse nos perjudica. La idea de una ventana abierta al resto del mundo es cierta, pero en mi caso prefiero tumbarme tranquilamente y leer un buen libro. También prefiero ver las cosas con mis propios ojos, viajar, sentir. No puedo entender muchas cosas sólo a través de la pantalla.

¿Cómo te imaginas el futuro próximo de Irán? ¿Tienes miedo a una posible intervención militar de Estados Unidos?

No creo que esto pase. Creo que si algo sucediera no sería para peor, pero tampoco soy nadie para analizarlo.

¿Es fácil ahora visitar Irán?

¡Sí! ¿Quieres venir? Por favor ven. Creo que es un país extraordinario, muy diferente a otros. Con muchas cosas increíbles para ver.

viernes, 11 de septiembre de 2009

domingo, 6 de septiembre de 2009

RUSSIAN ROULETTE Tania Bruguera


Delivered at La culture comme estrategie de suvivre, a seminar organized for Jeu de Paume by Maria Inés Rodríguez, March 6, 2009.
I
I would like to focus my presentation today in the words announcing this seminar:
"Culture as a Strategy to Survive." I would like to share some ideas and even questions on the idea of survival.
We speak of survival as an important element, even when its definition has more to do with a biological than with a social concept. At times, surviving is the wrong
answer, the conservative answer, the answer sublimating permanence over and above the sense of living. At times surviving (or wanting to survive) is what makes us weaker, what makes us lose our intention to live, what makes us simply animals. To understand the social being, at times we should not survive.
Looking at the idea of survival from a social point of view, we could arrive at the conclusion that it is precisely the battle against this sense of stabilization what leads to our social advance. It is the reaction at the presence of death (or its equivalent: social inertia) what makes (what defines) the type of social subject we are. Therefore, the question for me is rather: what do we do after having survived?
For how long should we survive? And the most important one for me: why survive?
All these questions have to do with responsibility.
The word strategy also implies a fragile situation, a short-term solution, a transitory state of affairs. We could say that since art has a socially limited function, a representation is not the presentation of solutions, but always a temporary diversion.
The responsibility of culture is not to be found in offering survival strategies, but in giving survival a sense. Culture as a social tool should make us do something on fear and the wish to begin anew. Because surviving is a process of erasure, a process of destabilization of values, a process where we define what social aspect is important for us and which are those we will give priority to. Survive is a process in
which abstract thinking becomes corporeal.
Confining ourselves to the world of art, we could say that there are two types of art: that interested in representation - we could say it is the art of those interested in being narrators - and that interested in "putting into practice," in the implementation of ideas - that of those interested in doing. The former is more
interested in keeping archives and developing resources in a protected environment set aside for observation. That is why I would be more interested in talking from
the second position, because it is more committed in a political relationship and more within the discourse of reality.
II
(the politicization of survival)
I would like to quote some words from the presentation we just heard by Lisette Lagnado, when she asks: "May an exhibition today establish a place belonging to
politics, as factories, streets or the University do?"
I believe that it is not only possible, but it is the challenge of art today. I believe there are structural elements belonging to this search:
1. the idea of a contextual art,
2. the idea of a useful art,
3. the need to change the times of art consumption,
4. the building of a new role for the spectator,
5. and forgetting the idea that art is eternal.
Artists frequently say they talk for others. The old idea of artists lending their voices to those who have no voice, but as we well know, this is problematic. We
should give the privileged space of artists to the others, to those without a social space, because these are not times to talk, or to say. Art already finds
much competition in the new media (Internet, SMS, and so on). These are times to do, to transform words into action, from a source of information and observation to a source where social tools are created. Artists must yield their space, a space of social privilege, because it is a space where you can re-imagine and then rebuild a power relationship: a space putting forward tools
that may be transported to the real world.
Political art, the art that wants to be in a political place/site, must also think not in doing a work for others or because of others, but in making a work made by
others. A work in which they are the material, the topic, the spectator and the documentation, where everything is one and the same thing, an activity where
thinking and doing are a unity.
That is why artists should also redefine their role and their form of putting into practice their knowledge of the visualization of thinking.
What I find important is also the need of changing the consumption concepts linked to art (especially now we are living the collapse of the capitalist field) and
I am referring to the aspects in its production, presentation and acquisition process. Political art has the chance not only of suggesting a different way of
building relation models among objects (which is something rather falling in the sphere of action of capitalism) but also of suggesting relation models with
ethics.
More than in an art made on politics, I am interested in a politically made art, suggesting new structures of power activation, where equality (equity) is a
constant and continuous bargaining, an art establishing mobile structures of observation, because it is true that we make works of art that speak of the here
and now, but they are made with observation structures mostly belonging to the 19th century with all the political and class implications stemming from this.
Artists should dilute in their roles, should establish the level and conditions of self-sabotage with which they will work.
III
Artists should self-sabotage
The way in which artists should survive is by losing their memory, not considering the work they have done as accumulated capital and being ready to lose their individual history at any moment.
The audience should also stop being protected. The world of art, with all its institutions, has become a place concentrating in protecting the audience (because of an interest in educating it or the intention of entertaining it).
Artists should self-sabotage within the expectations they have created with their work. They should do likewise with the expectations of previously designed
careers in which it seems that artists are rather small corporation managers showing the productive capacity (the productivity) of concepts linked with the conception of society as capitalist and not a new idea of society, a society that may not yet exist, a society you intend to debate.
Artists should self-sabotage in their relationship with others in the world of art by not pleasing them, and especially not pleasing institutions.
Artists should self-sabotage by quitting their work, by leaving their comfortable positions and looking for a difficult site, one that they do not understand,
leaving doing design aside and do living. Artists should stop and start from scratch, from a place that is not self-nostalgic, a site where all our insecurities
are present, an insecure place, a place that is not self-important, a place where art is not an important concept. Art should be a concept appearing later, after
the fact, not an a priori decision.
IV
Ephemera as a way of surviving in others
Works of social art should use social time and spectators should leave aside being spectators and become social beings to "see" (it could also be said "to be in") the work. Curators should also transform, because political art should deal with ethics and to value this discourse, we should leave the representational world and enter the world of power relationships. Then, aesthetics would rather be the effectiveness of these relationships and beauty would be seen as the moments in which these utopias materialize.
The idea, I might say the pressure, that as artists we have to do things that will make us survive is something we should reject, because it conditions the ideas of art as archive, as an index, and not art as a contextual answer, as an answer to the present moment.
Political art should stop using references and start creating references.

Tania Bruguera
Jeu de Paume
March 6, 2009

sábado, 5 de septiembre de 2009

La caza del transexual.



Aquí os dejamos un vídeo sacado desde el telediario de la primera TG1. El vídeo nos enseñas la consideración que la gente tiene de los transexuales en barrios como el Prenestino. Esto es uno de muchos casos donde los derechos humanos parecen no existir. Donde el que se escapa de la norma heteronormativa fiel a una estúpida moral cristiana hipócrita, no tiene sitio en Italia. Donde el extranjero, gitano, rumano, negro se prefiere quemar mas que entender. Donde la palabra diferente quiere decir miedo. El problema mas grave es que todo un sistema de información sostiene estos tipos de acciones. Básicamente el Estado en si mismo empuja y incita en manera subliminal (que a nosotr*s parece un claro acto de homofobia, transfobia y de represión a la prostitución) a que estos hechos sean los justo para llegar a cabo el proyecto político de este País. Un proyecto que no es solo de responsabilidad de su gobierno claramente dictatorial en su nueva forma mediatica, sino es responsabilidad de todos los demás gobiernos que siguen mirando a Italia como se fuera un campo de experimentación. Responsable es esta Europa y todos sus gobiernos que quieren que la "bota" sea lo que es. Italia no es así lejana para no saber lo que está pasando. Sin pensar en Napoli que es el basurero de Europa donde dejan morir la gente en silencio en una tierra que ya es comparable a Chernóbil.
Todo esto se hace y quien gobiernan esta Unión Europea lo saben pero todos miran, critican como si no fuera asunto suyos pero aprenden y siguen experimentando ellos también dejando una manta negra de ignorancia general como si nada existiera.

Gracias a Diana Pornoterrorista por el apoyo y la difusión.

viernes, 4 de septiembre de 2009

CENSURADO "VIDEOCRACY" Erik Gan­dini

"en una videocracia la llave del poder está en la imagine"

Erik Gandini, director de cine, vive en Suecia pero nacido y crecido en Italia.
Con Videocracy, vuelve en su País de origen, por recontar desde dentro las consecuencias de un experimento televisivo que los italianos han sufrido en 30 años. Erik Gandini llega obtener acceso exclusivo a las esferas mas potentes y desvela una historia significativa, derivada da las espantosa realidad de la televisión italiana, en un País donde el pasaje de showgirl a Ministro per le Pari Opportunità es puramente natural.

Director: Erik Gandini
Año de produción: 2009
Duración: 85'
Tipología: documental
Genero: social
País: Suecia
Produción: Atmo AB, Zentropa Entertainment, SVT; en colaboración con BBC4 Storyville, Danish Broadcasting Corporation, YLE Coproductions
Titulo original: Videocracy
Otros titulos: Videocrazia - Videokrati - Italia Anno Zero - Italy Year Zero

+ info
otra pelicula de Erik Gandini Surplus (2003)

Oggi come Ieri

Riporto qui di seguito alcuni passi tratti da "Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Giulio Einaudi Editore, Torino 2003, pp. 74-75 e 92-93-94".


[...] Ed ora essi hanno l'aria di essere soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più democratica, più tollerante, più moderna ecc. Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l'Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore. Non si accorgono che non c'è nessuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente dei criminali e coloro che non lo sono: e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l'intera massa dei giovani. Non si accorgono che in Italia c'è addirittura il coprifuoco, che la notte è deserta e sinistra come nei più neri secoli del passato: ma questo non lo sperimentano, se ne stanno in casa (magari a gratificare di modernità la propria coscienza con l'aiuto della televisione). Non si accorgono che la televisione, e forse peggio la scuola dell'obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie: ma considerano ciò una spiacevole congiuntura, che certamente si risolverà - quasi che un mutamento antrolpologico fosse reversibile. [...]

[...] L'Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente.
Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o conformisti fino alla follia e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano le pagine di cronaca dei giornali, ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione. [...]

15 giugno 1975, in "Corriere della Sera", 9 novembre 1975



[...] E io sono qui, solo, inerme, gettato in mezzo a questa folla, irreparabilmente mescolato ad essa, alla sua vita che mostra tutta la sua "qualità" come in un laboratorio. Niente mi ripara, niente mi difende. Io stesso ho scelto questa situazione esistenziale tanti anni fa, nell'epoca precedente a questa, ed ora mi ci trovo per inerzia: perché le passioni sono senza soluzione e senza alternative. D'altra parte dove fisicamente vivere?
Ho "L'Espesso" in mano, come dicevo. Lo guardo, e ne ricevo un'impressione sintetica: "Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov'è, dove vive?" E' un'idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: "Essa vive nel Palazzo".
Non c'è pagina, riga, parola in tutto "L'Espresso" (ma probabilmente anche in tutto il "Panorama", in tutto "Il Mondo", in tutti i quotidiani e settimanali dove non ci siano pagine dedicate alla cronaca) che non riguardi solo e esclusivamente ciò che avviene "dentro il Palazzo". Solo ciò che avviene "dentro il Palazzo" pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità...
E naturalmente, di quanto accade "dentro il Palazzo" ciò che veramente importa è la vita dei più potenti, di coloro che stanno ai vertici. Essere "seri" significa, pare, occuparsi di loro. Dei loro intrighi, delle loro alleanze, delle loro congiure, delle loro fortune; e, infine, anche, del loro modo di interpretare la realtà che sta "fuori dal Palazzo": questa seccante realtà da cui infine tutto dipende, anche se è così poco elegante e, appunto, così poco "serio" occuparsene.
[...] Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti "dentro il Palazzo". Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti: cosa che aveva creato in essi l'obbligo di occuparsi della "gente". Ora, se della "gente" si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche di "Doxa" o "Pragma" (se ricordo bene i nomi). Per esempio è indecoroso occuparsi di casalinghe, nominare le quale può al massimo mettere in un'ottima disposizione di spirito: le casalinghe, a quanto pare, non possono essere che personaggi comici. E infatti su "L'Espresso" ci si occupa delle casalinghe - quasi animali enigmatici, lontani, perduti nella profondità della vita quotidiana - perchè una statistica di "Doxa" o di "Pragma" ha appurato che il loro voto è stato notevolmente importante per la vittoria comunista alle ultime elezioni. Cosa che ha fatto tremare il Palazzo, causando terremoti nelle gerarchie del potere.
Le casalinghe vivono nella Cronaca, Fanfani o Zaccagnini nella storia. Ma tra le prime e i secondi si apre un vuoto immenso, una "diacronia" che è probabilmente l'anticipazione dell'Apocalisse.
A cosa si deve questo vuoto, questa diacronia? Perchè la cronaca che è sempre stata così importante dal 1945 in poi, è ora chiusa in reparto stagno, relegata in un ghetto mentale? Analizzata, sfruttata, manipolata, è vero, in tutti i modi possibili suggeriti dalle norme del consumo, ma non collegata con la "storia seria", non resa, cioè, significativa?
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"Corriere della Sera", 1° agosto 1975.