Cronaca di un matrimonio non annunciato
Era da dodici anni che non andavo ad un matrimonio.
Pochi amici che c( r )edono al grande passo.
Questo, era nella premessa, non sarebbe stato proprio uno di quelli classici.
E non solo per quello che può saltare agli occhi.
Quando avevo chiesto qualche info sul dress-code mi era stato detto “tipo clan dei Casamonica”: solo senza l’elicottero.
Così quando gli sposi sono arrivati su una carrozza trainata da un cavallo belga da tiro, uno di quelli con i pantaloni a zampa di elefante, ho capito che “tipo” non era un modo di dire.
E mi sono pentita di non aver osato qualche colore sgargiante, un lembo leopardato: mannaggia a me e al mio imprinting dark.
In ogni caso nemmeno nel rito ufficiale le cose sono state proprio solo ufficiali.
Prima che iniziasse tutto, le Battonz hanno letto una cosa simpatica, un po’ in spagnolo e un po’ in italiano, che raccontava in rima la storia degli sposi, che è la storia di una grande casa, di decine di persone; che parla diversi linguaggi, che è cresciuta fra musiche e profumi di spezie, vaniglia e caffè.
Detta così sembra seria (perché è una storia seria) ma faceva ridere e abbiamo riso.
Poi una zia della sposa, di punto in bianco, chitarra alla mano, ha cantato One Love.
E lì, io che sono una lacrima facile, mi sono commossa.
Non c’era verso di far iniziare il rito ufficiale.
Quello con le formule.
E comunque anche dopo la lettura degli articoli, delle cose che si devono dire per stabilire il contratto, il sindaco ha detto cose tipo: bisogna piantare radici profonde per poi sradicarsi.
La cosa delle radici piantate e contemporaneamente da divellere mi è piaciuta tanto.
Anche perchè sarebbe l’unico modo per far andar meglio le cose.
Poi, seguendo un rito africano, ha mescolato in un vaso le erbe dell’Istria e quelle del Senegal, a simboleggiare l’unione di due paesi, oltre che delle persone.
Di solito si fa con la sabbia.
Si mescola terra.
Però non era a disposizione e quindi hanno trovato le piante.
E mi è piaciuto di più, sempre per la faccenda delle radici.
Tutto questo è avvenuto con traduzioni simultanee: italiano/francese; spagnolo/italiano.
C’è stato anche un “de puta madre” rimbombato nella sala comunale che la traduttrice ha avuto l’accortezza di non riportare.
In stile clan dei Casamonica, all’arrivo all’agriturismo (la colonna di automobili, con il padre della sposa in testa, velocità tra i 95 e i 100 kmh, perdeva per la strada almeno un paio di vetture non avvezze alla velocità e alle strade friulane), tra lo sbalordimento generale faceva la sua apparizione l’album con le foto della cerimonia celebrata un’ora e mezza prima.
C’è stato un altro momento in cui mi sono pentita del mio abbigliamento: non aver portato il cambio delle scarpe.
Ai matrimoni è un classico togliersi il tacco per mettere la scarpa comoda per ballare.
In questo caso sarebbero servite delle scarpe robuste, anche i miei Martens, per la partita Italia-Senegal che si è disputata nel pomeriggio.
Palloni regolamentari, striscioni, magliette azzurre scritta bianca ITALIA e magliette gialle scritta verde SENEGAL.
Quando hanno iniziato a distribuire le maglie ho capito che non c’era storia.
Si poteva decidere a tavolino. Nessuno ha preso scommesse.
Ma visto che c’era anche l’arbitro, vestito da arbitro, la partita è stata eroicamente disputata anche dagli azzurri e vinta 6 a 2 dagli africani.
Mi sono dimenticata di parlare dei colori.
O forse si è già capito che ce n’erano diversi.
Comunque i confetti erano gialli-rossi e verdi.
Il vestito della sposa invece era rosa.
Come quel lago in Senegal.
Come quel lago in Australia.
Posti da cui si è partiti e a cui eventualmente tornare.
Di nuovo le radici sradicate.
La torta era rossa come le cose potenti: il sangue, la lotta, il fuoco; come la carne.
Agli sposi ho regalato un cuore.
So che è scontato, ma è stato il cuore a trovare me.
In una busta nera (un po’ per il discorso Casamonica-Unconventional People; un po’ per caso) agli sposi ho scritto delle cose.
La tradizione, in Italia, vuole che il matrimonio sia rappresentato da diversi materiali.
Nei primi anni l’anniversario è di carta, cotone, seta; poi via-via diventa sempre più consistente come i metalli o le pietre preziose.
Si parte da materiali che la tradizione identifica come fragili e si arriva all’infrangibile.
Come le nozze d’oro. I più fortunati e longevi arrivano al diamante.
Ho pensato di raccogliere in parole e immagini tutti i materiali di cui è fatta una vita insieme.
Nella tradizione manca, secondo me, un elemento.
E’ per questo che le tradizioni vanno sovvertite.
Bisogna scavare dove si è nati per trovarle e poi scagliarsi lontano per ritrovarsi.
L’elemento che non c’è l’ho trovato sul greto del fiume.
Che in questo caso non è solo il “mio” fiume perché è anche il fiume della sposa, che sta sull’altra sponda.
E’ un fiume, il nostro, che se c’è l’acqua quella della piena; non c’è verso, fa paura e non si può attraversare.
Ma di solito nel suo scorrere apparentemente tranquillo ci sono diversi posti in cui il guado è possibile.
Soprattutto a Casarsa.
Se non ci fosse questo fiume, non ci sarebbe neanche questa porzione di pianura fatta di sassi e acque che ci fa da casa.
Anche se non si vede, anche se la sua potenza è tutta sotterranea.
Sul letto del fiume ho trovato un sasso a forma di cuore.
Ma sono i sassi che trovano me, a dire il vero.
Questo è particolare perché del più potente dei muscoli ha consistenza e colore.
Non è una cosa per fighetti insomma.
E potrebbe anche spaccare una vetrina volendo.
Non è che puoi arrivare a tutti i matrimoni con un sasso.
Ma qui ho potuto sovvertire il vocabolario; e la definizione “cuore di pietra” ha subìto una metamorfosi.
Quando il sindaco parlava di quelle radici e di quel eradicamento a me è venuto in mente il concetto di unità nella diversità che mi piaceva tanto quando stavamo al Centro Sociale.
Non è che sia facilissimo, ma è l’essere diversi e distanti e simultaneamente complementari e connessi che può far rotolare questo pianeta in un modo leggermente migliore.
Sandra Tonizzo
Pochi amici che c( r )edono al grande passo.
Questo, era nella premessa, non sarebbe stato proprio uno di quelli classici.
E non solo per quello che può saltare agli occhi.
Quando avevo chiesto qualche info sul dress-code mi era stato detto “tipo clan dei Casamonica”: solo senza l’elicottero.
Così quando gli sposi sono arrivati su una carrozza trainata da un cavallo belga da tiro, uno di quelli con i pantaloni a zampa di elefante, ho capito che “tipo” non era un modo di dire.
E mi sono pentita di non aver osato qualche colore sgargiante, un lembo leopardato: mannaggia a me e al mio imprinting dark.
In ogni caso nemmeno nel rito ufficiale le cose sono state proprio solo ufficiali.
Prima che iniziasse tutto, le Battonz hanno letto una cosa simpatica, un po’ in spagnolo e un po’ in italiano, che raccontava in rima la storia degli sposi, che è la storia di una grande casa, di decine di persone; che parla diversi linguaggi, che è cresciuta fra musiche e profumi di spezie, vaniglia e caffè.
Detta così sembra seria (perché è una storia seria) ma faceva ridere e abbiamo riso.
Poi una zia della sposa, di punto in bianco, chitarra alla mano, ha cantato One Love.
E lì, io che sono una lacrima facile, mi sono commossa.
Non c’era verso di far iniziare il rito ufficiale.
Quello con le formule.
E comunque anche dopo la lettura degli articoli, delle cose che si devono dire per stabilire il contratto, il sindaco ha detto cose tipo: bisogna piantare radici profonde per poi sradicarsi.
La cosa delle radici piantate e contemporaneamente da divellere mi è piaciuta tanto.
Anche perchè sarebbe l’unico modo per far andar meglio le cose.
Poi, seguendo un rito africano, ha mescolato in un vaso le erbe dell’Istria e quelle del Senegal, a simboleggiare l’unione di due paesi, oltre che delle persone.
Di solito si fa con la sabbia.
Si mescola terra.
Però non era a disposizione e quindi hanno trovato le piante.
E mi è piaciuto di più, sempre per la faccenda delle radici.
Tutto questo è avvenuto con traduzioni simultanee: italiano/francese; spagnolo/italiano.
C’è stato anche un “de puta madre” rimbombato nella sala comunale che la traduttrice ha avuto l’accortezza di non riportare.
In stile clan dei Casamonica, all’arrivo all’agriturismo (la colonna di automobili, con il padre della sposa in testa, velocità tra i 95 e i 100 kmh, perdeva per la strada almeno un paio di vetture non avvezze alla velocità e alle strade friulane), tra lo sbalordimento generale faceva la sua apparizione l’album con le foto della cerimonia celebrata un’ora e mezza prima.
C’è stato un altro momento in cui mi sono pentita del mio abbigliamento: non aver portato il cambio delle scarpe.
Ai matrimoni è un classico togliersi il tacco per mettere la scarpa comoda per ballare.
In questo caso sarebbero servite delle scarpe robuste, anche i miei Martens, per la partita Italia-Senegal che si è disputata nel pomeriggio.
Palloni regolamentari, striscioni, magliette azzurre scritta bianca ITALIA e magliette gialle scritta verde SENEGAL.
Quando hanno iniziato a distribuire le maglie ho capito che non c’era storia.
Si poteva decidere a tavolino. Nessuno ha preso scommesse.
Ma visto che c’era anche l’arbitro, vestito da arbitro, la partita è stata eroicamente disputata anche dagli azzurri e vinta 6 a 2 dagli africani.
Mi sono dimenticata di parlare dei colori.
O forse si è già capito che ce n’erano diversi.
Comunque i confetti erano gialli-rossi e verdi.
Il vestito della sposa invece era rosa.
Come quel lago in Senegal.
Come quel lago in Australia.
Posti da cui si è partiti e a cui eventualmente tornare.
Di nuovo le radici sradicate.
La torta era rossa come le cose potenti: il sangue, la lotta, il fuoco; come la carne.
Agli sposi ho regalato un cuore.
So che è scontato, ma è stato il cuore a trovare me.
In una busta nera (un po’ per il discorso Casamonica-Unconventional People; un po’ per caso) agli sposi ho scritto delle cose.
La tradizione, in Italia, vuole che il matrimonio sia rappresentato da diversi materiali.
Nei primi anni l’anniversario è di carta, cotone, seta; poi via-via diventa sempre più consistente come i metalli o le pietre preziose.
Si parte da materiali che la tradizione identifica come fragili e si arriva all’infrangibile.
Come le nozze d’oro. I più fortunati e longevi arrivano al diamante.
Ho pensato di raccogliere in parole e immagini tutti i materiali di cui è fatta una vita insieme.
Nella tradizione manca, secondo me, un elemento.
E’ per questo che le tradizioni vanno sovvertite.
Bisogna scavare dove si è nati per trovarle e poi scagliarsi lontano per ritrovarsi.
L’elemento che non c’è l’ho trovato sul greto del fiume.
Che in questo caso non è solo il “mio” fiume perché è anche il fiume della sposa, che sta sull’altra sponda.
E’ un fiume, il nostro, che se c’è l’acqua quella della piena; non c’è verso, fa paura e non si può attraversare.
Ma di solito nel suo scorrere apparentemente tranquillo ci sono diversi posti in cui il guado è possibile.
Soprattutto a Casarsa.
Se non ci fosse questo fiume, non ci sarebbe neanche questa porzione di pianura fatta di sassi e acque che ci fa da casa.
Anche se non si vede, anche se la sua potenza è tutta sotterranea.
Sul letto del fiume ho trovato un sasso a forma di cuore.
Ma sono i sassi che trovano me, a dire il vero.
Questo è particolare perché del più potente dei muscoli ha consistenza e colore.
Non è una cosa per fighetti insomma.
E potrebbe anche spaccare una vetrina volendo.
Non è che puoi arrivare a tutti i matrimoni con un sasso.
Ma qui ho potuto sovvertire il vocabolario; e la definizione “cuore di pietra” ha subìto una metamorfosi.
Quando il sindaco parlava di quelle radici e di quel eradicamento a me è venuto in mente il concetto di unità nella diversità che mi piaceva tanto quando stavamo al Centro Sociale.
Non è che sia facilissimo, ma è l’essere diversi e distanti e simultaneamente complementari e connessi che può far rotolare questo pianeta in un modo leggermente migliore.
Sandra Tonizzo
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